0 1 settembre 2001

America’s New War

Non ci interessa, in questa sede, proporre analisi che tocca ad altri fare. Il nostro umile tentativo è quello di evidenziare alcune parole chiave accompagnandole con alcune riflessioni. § Pietà. Di fronte all’immane tragedia che ha colpito il popolo americano il mondo ha riscoperto un sentimento connaturato all’uomo ma che sempre più spesso è sacrificato sull’altare della finzione virtuale. Anche i politici sono sembrati scossi e, almeno per una volta, poco propensi a sciorinare il consueto bagaglio di retorica e frasi fatte. Non sono mancate, purtroppo, eccezioni: come quelle di coloro che pur condannando la strage hanno cominciato ad introdurre dei distinguo: piangiamo pure sui morti, affermano alcuni, ma non dimentichiamoci che gli Stati Uniti si credono i padroni del mondo e in qualche misura quanto accaduto va a punire il loro ruolo di garanti dell’ordine mondiale. Sono ragionamenti che preoccupano non solo quando vengono da certi leader politici ma anche quando sono diffusi via Internet dai messaggi dei giovani che affollano le chat line sull’argomento. Senza parlare del cinismo sbandierato (anche a Bologna) da più di un esponente del mondo islamico. Sono un segnale che senza la pietà e senza la misericordia anche l’analisi più corretta o l’ideale armato delle migliori intenzioni (ad esempio, la rivendicazione del primato della propria religione, il pacifismo estremo o la contestazione aprioristica di ogni forma di globalizzazione) prima o poi si trasformano in istigazione o addirittura in violenza tout court. § Preghiera. La tragedia americana ha rivelato con tutta la forza della diretta televisiva che di fronte alla violazione di quello che si riteneva il paese più sicuro del mondo l’uomo di ogni latitudine non può non sentirsi come una foglia d’autunno per dirla con Ungaretti. E in attesa di sapere quando si staccherà dall’albero all’uomo non rimane che la preghiera, quella liturgica per chi crede ma anche quella appena abbozzata a volte incerta anche sul destinatario. Oltre a milioni di persone in tutto il mondo, ha pregato l’evangelico Bush, citando il salmo 23 ma a suo modo anche il leader dei palestinesi Arafat che ha donato il sangue per i feriti dell’attentato con un gesto simbolico che, al di là di possibili calcoli politici, è comunque coraggioso. La preghiera riscoperta in questi giorni bui non ha alcun punto di contatto con il fatalismo: può essere il veicolo per riaprire una domanda sul significato della vita che non è fatta, come ognuno ben sa, solo di week end o serate davanti alla televisione ma anche di dolore e di morte. § Islam. A prescindere da chi ha organizzato l’attacco mortale i fatti di questi giorni ripropongono con forza la questione islamica. Certo, non si possono criminalizzare milioni di musulmani moderati e incolpevoli per la strage. Ma non si possono ridurre i terroristi a mere schegge impazzite o liquidare come innocue le dichiarazioni di molti rappresentanti del mondo islamico. Nel loro delirio ( ma non dimentichiamo che chi li ha finanziati lo ha fatto con lucida razionalità ed efficienza) coloro che hanno provocato la catastrofe sono l’icona di una mentalità molto diffusa nella cultura islamica secondo la quale la vita terrena, la propria e quella degli altri, non ha alcun valore e come tale può essere sacrificata se Allah lo vuole. Di questa mentalità l’Occidente deve imparare ad avere paura: senza arrendevoli buonismi o irrazionali emarginazioni, ma rafforzando la propria cultura e la propria identità e controllando con candore e furbizia che dietro il paravento dell’integrazione non vi siano strutture in apparenza pacifiche ma che operano in realtà come cavalli di Troia. § Pace. Le ultime generazioni del mondo occidentale non hanno per fortuna conosciuto gli orrori della guerra. I conflitti più recenti, mai sopiti in realtà, hanno riguardato paesi lontani e poco interessanti (come quelli africani) o di maggior impatto emotivo (il Golfo o la Bosnia). Ma oggi, dopo quanto successo, è come se la guerra fosse di nuovo rientrata in casa nostra. È logico quindi che salga da più parti una grande domanda di pace che come cattolici dobbiamo impegnarci a sostenere senza cadere tuttavia in facili irenismi. L’auspicio, certamente, è che gli Stati Uniti non rispondano alla guerra con un’altra guerra. Ma sarebbe molto pericoloso accontentare coloro che, ancor prima di conoscere i nomi dei responsabili, chiedono di evitare ritorsioni quando non un perdono in bianco. I crimini di guerra, il sanguinoso Novecento ce lo ha drammaticamente insegnato, vanno perseguiti. Quanto al perdono non spetta agli Stati ma agli uomini, soprattutto quelli colpiti nel più profondo dei loro affetti.