0 1 settembre 2001
È trascorso un mese da quando nei vicoli e nelle strade di Genova è andato in scena il drammatico scontro tra i grandi della Terra e il variegato popolo della protesta contro la globalizzazione. Sui quei terribili fatti siamo stati sommersi da analisi sociologiche ed economiche; sono altresì iniziate, e sono tuttora in corso, indagini parlamentari e giudiziarie. Un ginepraio nel quale, si tranquillizzi il lettore, non vogliamo assolutamente entrare, lasciando ad altri l’arduo compito di ricostruire come sono andate le cose e di individuare con certezza (ammesso e non concesso che esista) una linea di confine tra buoni e cattivi. § Vorremmo invece cogliere l’occasione per proporre alcune riflessioni più generali che hanno il solo obiettivo di aiutare a riprendere con pacatezza certi argomenti che, sopraffatti da un vero e proprio campo di battaglia sono passati in secondo piano quasi come avviene allo stadio durante gli scontri tra polizia e ultras quando il risultato della partita diventa quasi irrilevante. § L’economia moderna, almeno fino a un certo punto, ha potuto contare su due grandi motori: il capitalismo da una parte, il marxismo dall’altra. Travolto quest’ultimo dal crollo delle ideologie e dalla sua incapacità concreta di dare risposte alla domanda di giustizia di ogni uomo senza sottrargli, anche con la violenza, il bene prezioso della libertà, a governare il mondo non resta che il primo, ormai pronto a trovare ampi squarci di azione anche nell’impermeabile Cina. Un esito facilmente prevedibile: se infatti l’ideologia, anche la più apparentemente umanitaria, prima o poi deve rispondere al tribunale della storia per i suoi delitti e le sue menzogne, la ricerca del profitto non conosce limiti di tempo e di spazio. § Dunque, oggi più che mai, viviamo in un contesto capitalista che ha preso il nome di globalizzazione, ovvero una ricerca del profitto non più solo locale ma su scala universale. § Non c’era bisogno di aspettare le tute bianche o nere per capire che un capitalismo libero e selvaggio era inaccettabile e andava comunque governato: dal magistero sociale della Chiesa, in tempi non sospetti, sono nate opere con lo scopo prioritario di bilanciare la ricchezza nel mondo non demonizzandola ma dando una chance ai più poveri. Gli stessi stati occidentali hanno intuito che non si poteva affidare tutto al mercato: da questa è nata l’idea del Welfare state, tramontata quando l’intervento assistenzialista ha dovuto fare i conti con esborsi non compatibili con i bilanci. § In questo contesto, un comunismo che non c’è più, un capitalismo che avanza, ammortizzatori meno efficaci, si è inserito il movimento no global, un frastagliato arcipelago dove vivono fianco a fianco pacifismo e terrorismo, terzomondismo e giustizialismo e che ha privilegiato, come puntualmente avviene dal ’68 in poi, gli slogan e il rumore di piazza al raggiungimento di obiettivi concreti e realisti. § In tutto questo cosa c’entrano i cattolici? Personalmente abbiamo visto con favore l’intuizione iniziale di misurarsi da parte del nostro mondo con la provocazione almeno in parte condivisibile dei contestatori. Non ci ha convinto, invece, la partecipazione diretta sulle barricate di chi, pur senza condividere le violenze ha accettato il rischio di annullarsi in una marmellata omologata attorno al sapore di una sinistra un po’ san Francesco e un po’ Sendero Luminoso. A differenza di molti dei manifestanti anti G8 i cattolici hanno invece dalla loro una lunga e attuale tradizione nell’attenzione ai poveri e al terzo mondo, nella costruzione di opere sociali, nella realizzazione di presenze importanti nel mondo del lavoro e della formazione. Di questa tipicità,, tutt’altro che astratta, nel menù di Genova non vi è stata traccia: anzi per i cattolici c’è stato il rischio di essere in prima fila a indulgere verso il massimalismo, di accettare di criminalizzare forme nuove di lavoro come quello interinale (che va certo regolato ma non bombardato a colpi di molotov), di farsi rappresentare dai portavoce dei social forum anziché essere essi stessi portavoce di una realtà, come quella della Chiesa, che ha una faccia e un’identità precisa, di mettersi al servizio dell’utopia piuttosto che del realismo (e, noi ne siamo convinti, delle nostre utopie, chi muore di fame nel Sud del mondo non sa che farsene). Non possiamo quindi accettare che un tema, al quale i cattolici contribuiscono sul campo con risorse umane ed economiche, diventi monopolio dei vari Agnoletto e Casarini. La strada è un’altra. Stare di fronte alle sfida della globalizzazione con la propria faccia e con la propria storia, non aver paura di criticare le ingiustizie delle multinazionali al pari di quelle che accadono in Russia dove un gruppo di lavoratori nordcoreani lavora gratis per far scendere il debito contratto dal proprio paese, perché di questo, ne siamo certi, più che delle spranghe i grandi hanno paura. Stare nella storia e nella cronaca con la propria identità è d’altra parte per i cattolici una scelta vitale: il rischio è di svendere il proprio patrimonio di presenze nel servizio ai più poveri a chi se ne serve per una pura operazione di potere. Era già successo, del resto, nel ’68 quando l’idea personalista della scuola fu svenduta per un piatto di lenticchie a quei barbari che l’ hanno poi accantonata per ridurre il sistema dell’istruzione a quel tappeto di macerie che ben conosciamo.