0 1 dicembre 2002

La tragedia del Salvemini

“La fede, come il bagliore di un piccolo lumicino, è un fragile, ma tenace segno di quel Dio che rischiara la nostra vita. Come non collegare all’idea della morte quella della vita ultraterrena?”. Così, qualche tempo prima di morire, scriveva in un tema Alessandra, una delle 12 vittime della strage all’istituto Salvemini, la scuola di Casalecchio di Reno dove alle 10.30 del 6 dicembre 1990 precipitò un aereo militare in avaria. Le parole di Alessandra sono una risposta inconsapevole e lungimirante alla domanda, la stessa che si fa oggi la gente di S. Giuliano, che in quel giorno di dodici anni angosciò studenti, genitori, docenti: perché questo sangue innocente? § Loreta Paris, insegnante di religione, ricorda il clima di grande confusione, di notizie frammentate, di mamme e papà che cercavano i propri figli all’ospedale. “Quando il giorno dopo ci ritrovammo con il collegio docenti” racconta “capimmo di essere impreparati di fronte a un tema come quello della morte, normalmente censurato”. Da questa consapevolezza iniziò un rapporto con quelli che si erano salvati, alle prese con una sofferenza interiore che non riuscivano ad esprimere. “In quel periodo” spiega la professoressa “mi arrivarono tante lettere: evidentemente i ragazzi avevano bisogno di qualcuno con cui confrontarsi. Una ragazza mi parlò del suo senso di impotenza. E mi chiese cosa fare per non soffrire più”. § I suggerimenti ai ragazzi furono due. Stare vicini a quelli che erano ricoverati e un’attenzione verso le famiglie. Su questo versante, all’inizio, ci furono difficoltà. Gli studenti non nascondevano il loro disagio, non sapevano cosa dire ai genitori delle vittime. Ma poi il contatto avvenne e, conferma la Paris “sperimentarono la bellezza di sentirsi utili parlando dei compagni che non c’erano più”.§ Poi fu proposto a tutti un momento di preghiera. “Ogni 6 del mese per due anni ci si trovò a scuola nel pomeriggio per mettere in comune la sofferenza. All’inizio si confrontava il proprio dolore con altri che vivevano la stessa situazione interiore; poi crebbe il desiderio di approfondire ciò che era successo e di prendere su di sé il dolore dell’altro, lasciando da parte, almeno per un po’, il proprio. Dopo un anno ci chiedemmo se valeva la pena continuare, se era giusto proporre ogni mese a chi partecipava la fatica del ricordo. Le famiglie non ebbero dubbi. Continuate, ci dissero, a darci una mano: senza memoria sarebbe come se i nostri figli morissero una seconda volta”. Una tragedia come quella di Casalecchio ha cambiato anche il modo di fare scuola. “Per quanto mi riguarda” conclude la Paris “da allora cerco di prestare più attenzione alle domande dei giovani, spesso emarginate dal contesto che li circonda: il nostro compito di educatori è di aiutare i ragazzi, partendo dalle cose piccole, a risvegliare una tensione, che in loro è presente, verso qualcosa di grande, verso una vita che abbia significato anche dopo un grande dolore. Mi sono ritrovata completamente nelle parole della maestra di S. Giuliano che ha dichiarato di non pensare a se stessa ma di voler essere vicino ai suoi bambini. Vedendo i loro volti nei letti di ospedale, ho scorto tanta paura ma anche voglia di certezza. Gli stessi sentimenti che avevano dodici anni fa i ragazzi sopravvissuti alla sciagura del Salvemini”.§ §